Il governo papale stabilì che nella fortezza di Civita-Castellana fossero rinchiusi i prigionieri di Stato ad espiarvi la pena. A tempo mio il maggiore Latini n'era il comandante; uomo severo, sospettoso, ed affezionatissimo al pontefice. Vi si trovavano da centoventi prigionieri: quaranta appartenevano alla causa di Viterbo del 1837, e la condanna loro di galera era stata commutata in quella di reclusione, e venivano loro concessi instrumenti da suonare e da lavorare. Il rimanente facevano parte degli arrestati per le cause di Bologna e delle Romagne del 1843 e 1845.
Quantunque fossimo stati ivi posti temporariamente, avemmo cura di creare tra di noi una deputazione eleggibile ogni tre mesi, ad oggetto di vegliare alla tranquillità interna, di rappresentare i bisogni dei reclusi al comandante, e di esaminare che i cibi fossero sani. Rivolgemmo perciò il pensiero alla istruzione; e tra il giorno si insegnava a leggere e scrivere, il disegno, l'aritmetica, la geografia, ecc. In tal foggia si veniva per noi ad addolcire la sventura, e a trarne partito in vantaggio dell'umanità.
Per quanto sicuri fossimo, non avevamo però l'animo sgombro da diffidenze per parte del governo; e ciascuno di noi andava armato degli instrumenti di legnaiuolo e di calzolaio ridotti a pugnali. Il comandante sapeva un tal fatto, ma non se ne dava pensiero.
Avevamo tra di noi degli elementi eterogenei; noi rappresentavamo una società in piccolo, con questa differenza che la privazione della libertà ci faceva melanconici, tristi, brontoloni, irosi e accattabrighe.
| |
Civita-Castellana Stato Latini Viterbo Bologna Romagne
|