Dopo giorni di nuove dubbiezze, di speranze, e di avvilimento, il comandante gettò una copia dell'amnistia nel cortile della reclusione. Si udirono degli evviva dappertutto; il comandante si commosse, e ordinò che fossero aperti i cancelli. I reclusi si diedero allora al massimo della gioia, e alle feste in comunanza coi custodi e coi soldati: in un istante furono obliate le offese, dimentichi che gli uni erano i carcerieri, gli altri i dannati. Un abbraccio, un'allegria universale! Alla sera rientrammo nelle prigioni, e il mattino seguente si chiese di uscire di nuovo. Fu negato: l'amnistia essere pei delitti puri politici, e non pei misti. E così per questa assurda distinzione, propria appunto della raffinatezza pretina, quaranta incirca de' nostri migliori dovevano rimanersene prigioni. Si pensò a salvarli, ma indarno. A dieci e a quindici per volta venimmo lasciati liberi, ma la libertà fu nei buoni amareggiata dal dolore, che lasciavamo dei nostri compagni, degli ardenti patrioti nei luoghi di miseria e di schiavitù.
Al nostro uscire ci fu forza sottoscrivere un foglio, in cui si dichiarava sul nostro onore, che d'ora innanzi non s'avrebbe per noi disturbato l'ordine pubblico, né operato contro il legittimo governo.
Su questa dichiarazione, uno storico, il signor dottor Carlo Luigi Farini, la cui prima dote non è certo quella della imparzialità, ha menato grande chiasso, traendo vili conseguenze a danno degli amnistiati.
Potevamo noi in coscienza dare tal parola? E rispondo del sì. Noi uscivamo pigliando a considerare legittimo il nuovo governo o sovrano, appunto perché iniziava la sua amministrazione col promettere riforme e soddisfazione ai bisogni delle popolazioni; col riputare uomini di onore quelli che avevano preso parte alle rivoluzioni antecedenti; col dare loro un'amnistia; col riconoscere in fatto, che il cessato ordine di cose suonava dispotismo.
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Carlo Luigi Farini
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