XXIII. Carlo Alberto, a sua volta, ponendo cieca fiducia sull'esercito, composto di un 20.000 soldati, e nel restante di contadini armati di fucile, rifiutava i volontarî per mezzo dei governi provvisorî, a lui aderenti, che rimandavano alle lor case coloro che si offerivano di prendere le armi; diceva con più millanteria che senno: l'Italia fa da sé; prima di attaccare una posizione, ordinava che i suoi soldati ascoltassero la messa, e lasciava che il nemico profittasse di quel tempo per le sue disposizioni militari. Non volgeva poi l'occhio alla amministrazione militare; non alle spie, che s'introducevano nel campo; non al soldato, che nel paese più fertile dell'Europa, stava 48 ore senza pane, e sen moriva di stenti, s'indeboliva, si demoralizzava; insomma egli, che aveva il ticchio di essere il più gran generale di que' tempi, conduceva la guerra con una incapacità che toccava il ridicolo. Eppur non mancava di buoni generali, ma volle far da sé.
XXIV. Per tutte queste cose l'entusiasmo, che s'era pur fatto sentire dovunque, scomparve; vennero in sua vece la diffidenza reciproca, la universale sfiducia, le recriminazioni, le calunnie dei partiti. La reazione trionfò colle stragi a Napoli, i volontarî vinti a Curtatone, a Vicenza, a Treviso; il papa rinnegò la guerra, e scomunicò chi spargeva il sangue dei Croati; il re Ferdinando richiamò i suoi soldati: defezioni dovunque. A questo, grandi ciarle dei liberali, per ogni dove, proclami e leve in massa: parole e poi parole, che non valsero a ridestare l'entusiasmo sfumato.
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