Chiamato dinanzi al Commissario politico Cecchi, che mi trattò inurbanamente, agl'interrogatorî risposi così: Che sino da che m'ebbi il conoscimento, aveva cospirato contro gli Austriaci, che tenevano schiava la mia patria; che fino a che avessi avuto una goccia di sangue nelle mie vene, avrei fatto altrettanto; che i miei principî inalterabili, repubblicani erano; che pel momento, ed ove bisogno ne cadesse, li faceva tacere, perché tutti i nostri sforzi dovevano essere uniti e diretti ad un oggetto solo, in prima, la cacciata dello straniero; che il governo sardo, nel darmi ospitalità, conosceva appieno questo mio pensare; che nulla aveva tentato contro di lui; che i tre arrestati in mia compagnia li aveva trovati per accidentalità, e strada facendo.
Dopo due o tre giorni venni tradotto a Genova nelle carceri di Sant'Andrea. Fu concessa una vettura a mie spese, e stetti due giorni in viaggio, sempre incatenato; per giunta ebbi a pagare del mio i gendarmi. I miei compagni, non trovandosi moneta sufficiente per le spese, vennero a guisa di assassini trascinati in un carretto: il lor viaggio durò da otto o dieci giorni, e dove pernottarono, furono perfino incatenati alle gambe: del resto, fame e stenti. In Genova, messo di stretta custodia, mi ebbi nuovo esame dal signor Prasca; confermai l'esposto. L'intendente Buffa recossi da me, e si mostrò assai educato; disse rispettare i miei principî, quantunque non conformi ai suoi: in un secolo forse il principio repubblicano avrebbe trionfato, nello stato attuale no; il governo sardo avrebbe trattato l'affar mio col massimo rigore, onde andare a fondo della cosa, ed impedire nel futuro nuovi conati, ecc.
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