Sul qual ultimo punto insistetti con molta forza, pensando, ove fossi passato per paesi a me noti, di fuggire di mano ai gendarmi.
Dapprima l'ispettore disse, che io era o Garibaldi od Orsini; poi soggiunse essere me quest'ultimo: negai, e risposi che conosceva per nome questi signori.
Finiti gl'interrogatorî, si recò nuovamente da me, scongiurandomi di dire chi mi fossi.
Risposi di accondiscendere, purché mi si desse la parola d'onore di farmi imbarcare a Trieste.
Se n'andò, promettendomi di far le pratiche necessarie. Infine mi fece intendere, ch'ei poteva dar la parola, ma che il governo non l'avrebbe mantenuta; per ciò era inutile. Soggiunse, sapersi dalle alte autorità governative, che non avevo contravvenuto alle leggi durante il mio soggiorno in Vienna, ma che essendo io un pericolosissimo rivoluzionario, mi sarebbe stata assegnata una fortezza a dimora, donde non sarei uscito che quando l'orizzonte politico fosse assai chiaro. Mi consigliò di nuovo a dire il mio nome: stetti saldo sul no.
Ebbene,
allora disse "ella sarà posto nelle mani di un giudice criminale, nel quale, per essere italiano, avrà certo maggior fiducia."
Poi crollando il capo, e in atto piuttosto di facezia che di malignità, disse:
Ella afferma di non essere mai stato prigione, ed io credo che vi sia capitato più volte».
Norisposi.
Soggiunse che mi sarebbe stato fatto il ritratto, e prese congedo.
Il giorno seguente fui condotto a tale oggetto in uno stabilimento fotografico.
Gl'interrogatorî ebbero luogo in italiano, ed il segretario li trascriveva in tedesco.
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