Presso ad entrare sotto l'arco che conduce alla porticella delle prigioni: "Dove si va?" dissi. "Là, nel castello" rispose freddamente e sommessamente il commissario, indicandolo colla destra.
Guardai come macchina all'intorno, e alla porta per la quale doveva entrare.
Mi volarono alla mente le barbarie che erano state commesse tra quelle mura a' tempi di mezzo: quelle consumate dagli Austriaci: Tazzoli, Poma, Speri, Grazioli, Grioli, Montanari, ed altri che ne uscirono nel 1852, per essere consegnati nelle mani del carnefice. Dissi meco stesso: come ne uscirò?
Salita la interminabile scala, ci trovammo a fronte di un uomo che dimostrava sui 55 anni; livido in volto, di sguardo sinistro, con voce rauca e disgustosa. Mi fece perquisire in sua presenza. Costui era Francesco Casati, milanese, capo custode del castello di San Giorgio.
Compiute le formalità, i gendarmi e il commissario presero congedo augurandomi buona sorte; ed io venni posto nella segreta num. 3.
Il mattino, il signor Bracciabene, medico delle carceri, si recò a visitarmi. Ordinommi qualche medicinale, e mi concesse il vitto d'infermo, consistente in una minestra nel brodo, un pezzetto di carne, una pagnottina bianca, ed un cattivo bicchiere di vino; m'ebbi pure materasso, lenzuola, e asciugamano. Cose tutte nuove per me.
A mezzodì circa, Casati entrò nella segreta annunziandomi il processante: mi volsi a sinistra, e mi apparve una persona piccola di statura, seguita da un'altra; ambi s'avvicinarono al letto in cui giaceva: il primo declinò il capo verso la mia faccia, e disse in dialetto lombardo: "L'è propri lù"; l'altro si pose a ridere.
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