Calvi stava in compagnia di due altri Lombardi: di certo Marco Chiesa da San Colombano, e Majoli; questo secondo del Comasco, se non erro.
Sul finire del settembre mi trovai col primo, e potei saper molte cose intorno allo infelice Calvi; tra le altre, che quando questi seppe dalla finestra il mio vero nome, impallidì e disse: "Eccone un altro, che non vedremo mai più; conosco appieno la sua vita; egli è perduto per sempre". Chinò il capo tra la palma delle mani, e per un dieci minuti stette zitto; indi tornò alla finestra, e ripigliò meco la conversazione, che ho narrata al principio del capitolo. La vicinanza di Calvi mi tolse quella tranquillità, che mi dava da principio la continua lettura: il pensiero, che ad ogni giorno egli poteva essere condannato al patibolo mi addolorava fuor di misura. Ad ogni sera io diceva: "Domani il mio compagno sarà forse ucciso; dopo non molto gli terrò io dietro. In questo frattempo non parlerò più con lui, non ci consoleremo più a vicenda, non c'interterremo mai più sulle cose nostre, sulla nostra Italia. Qual notte terribile sarà per lui quella in cui saprà che deve spirare il mattino! Ed io? Io lo sentirò forse passeggiare col passo agitato di chi va alla morte, là, qui, vicino a me": e toccava la parete che ci divideva da lui. "Oh! quando mai i miei connazionali cacceranno uno straniero, che manda ad ogni momento i migliori Italiani sulla forca? Quando mai cesseranno di tripudiare, mentre i loro compatrioti salgono le scale del patibolo? Quando sarà mai che indosseranno il lutto per non deporlo che il giorno, in cui a furia di popolo sarà cacciato dal suolo natìo?"
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