CAPITOLO SESTO
La notizia della morte di Calvi era venuta dai compagni di prigione; volli nonostante verificarla meglio, e più volte ne interrogai i secondini. Ma eglino rispondevano sempre: «Non si sa ancor niente del signor Calvi". Casati si recò da me per la solita lezione di francese; feci a questo la stessa dimanda: non mi disse né più né meno. Allora insistetti coi secondini; e dopo alquanto esitare, un di loro discese al sì, e poi a poco a poco tutti gli altri. Non si avea più dubbio: Calvi era stato strozzato. Quel segreto, quel mistero, che si voleva usato intorno alla sua morte, mi facevano sempre più convinto ch'io pure sarei uscito un dì dalla mia prigione per essere dato nelle mani del carnefice: cosa per vero non molto grata.
Con qual silenzio,
io diceva "con qual freddezza si è mandato ad uccidere un uomo! con quale semplicità di apparato invia l'Austria al capestro i nostri fratelli! Qui, a contatto di questo muro, ha passate l'amico mio quarantotto ore di agonia; qui l'ha assistito il sacerdote; di qui è uscito incatenato un bel mattino per lasciare questo mondo, per dare un addio eterno agli amici, alla infelice sua madre, all'Italia, per la cui salvezza ei cadeva. Qui forse una lagrima di dolore gli è scorsa sulle guance, in pensando che moriva per la sua patria, ma che la lasciava nella schiavitù. Egli ha forse rivolto un pensiero anche a me, pel quale il suo cuore aveva palpitato, e non gli ha retto l'animo di picchiare, e di annunziarmi ch'ei s'incamminava pel luogo, verso cui io stesso l'aveva presto a seguire.
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