Nel successivo non feci che leggere il canto di Ugolino, quello di Francesca da Rimini, e qualche poesia del Petrarca. Presi poi I Sepolcri di Ugo Foscolo, e non mi distaccai da questi per tutta la giornata. Nelle visite i secondini mi osservavano, e vedendomi tristo, mi chiedevano che avessi: risposi sempre che mi sentiva male. Venne il medico; gli dissi ch'ero sfinito e debole; mi rispose: "Si nutrisca e passeggi". "Quanto al primo," ripigliai "vedṛ di comandare al mio stomaco; ma quanto al secondo, mi gira il capo: la prigione è troppo angusta; e se faccio alcuni passi attorno, vado in sudore, e mi vengono delle vertigini alla testa." Egli mi guarḍ, chiṇ il capo, e se ne usć.
Ad accrescere la mia melanconia venne un fatto assai singolare. Mi giaceva sul letto: il tempo era stato in quel d́ pieno di nubi, che per vento si cacciavano l'una dietro l'altra con gran furia; s'era fatto udire qualche tuono e vedere qualche lampo; tutto minacciava un temporale. Non ne fu niente; ma il cielo rimase annuvolato, e di aspetto fosco e sinistro. Suonavano le otto di sera; e stanco delle ambasce del giorno, incominciava a chiudere gli occhi, come chi è per pigliar sonno: ad un tratto odo suoni musicali, e vedo una luce rossastra, che, passata a traverso la tela della mia finestra, si riverberava pallidamente contro il muro, stampandovi l'impronta delle sbarre di ferro. Volsi uno sguardo rapido da questo lato; poi ratto balzando a terra, aprii con forza le imposte, e mi trassi a mezzo la finestra appigliandomi ai ferri.
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