Io lo dissi, e francamente esposi tutto che concerneva il mio processo; ed eglino mi abbracciarono. Venne sera e ci coricammo: l'avere discorso tanto per la prima volta dopo nove mesi, mi cagionò un poco di convulsione; non potei dormire in tutta la notte, mi sembrava di essere in un altro mondo. I miei compagni mi presero molta affezione, e tenevanmi come un fratello. Fra i nostri discorsi ci accadeva talvolta di parlare dei processi: e mi si consigliava che, ove alla intimazione della sentenza mi si fosse chiesto di ricorrere alla grazia sovrana, lo avessi fatto: ma ciò più per amore che portavanmi, che per convinzione. Io diceva che non l'avrei chiesta, ma ripeteva che nulla si poteva dire intorno alle risoluzioni prese nei momenti supremi; del resto, aggiungeva, che non avrei mai commesso viltà o transatto con un nemico, che dobbiamo odiare sino alla morte. Dopo pochi giorni ci raggiunse un altro giovane, Annibale Feverzani di Brescia, appartenente a buonissima famiglia, e ottimo patriota.
I nomi degli altri erano i seguenti:
Luigi Bonati di Cremona, e Antonio Banfi di Milano: ambi assai istruiti e distinti per gentilezza di modi; Zambelli e Correnti, pur di Milano, ottimi patrioti; Marco Chiesa da San Colombano, giovane assai allegro, e tutto cuore: era l'amico di Calvi, e al parlarne gli venivano le lagrime; Geninazzi di Como, artigiano; per ultimo il conte Ercole Rudio, di Belluno, uomo in età avanzata; imprigionato, io credo, per semplice sospetto.
Stetti quattro mesi al numero 9; seppi allora che vi erano in castello tre donne per fatti politici, cioè la signora Cotica, di anni 45, di Venezia, madre di due o tre figli; giaceva nelle carceri da più di due anni per l'accusa di non aver fatto la spia ad un giovane emigrato, che si trovava con altro nome in Milano: era stata sola nove mesi; la contessa Rudio, di ventisette anni, per lo stesso titolo di mancata denuncia; e Rosa Giudici, milanese, albergatrice, perché taluni del popolo si riunivano nel suo albergo.
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