- ci rispose. - Voi avete visto le mie compagne laggiú, e con quel lavoro lí non ci restano lombi, non ci restano polsi, si raccattano caldane, febbri, sbalordimenti di testa. Guardate". E levando da sotto la coltre le mani ce le mostrò piene di setole (serchie), con la pelle rotta, magagnata, ricoverta di croste.
E sfogliandosi quelle croste con l'ugne, continuò: "Bisogna che la liquerizia si assodi a furia di sputarvi sopra, e di maneggiarla; bisogna che, come un pane biscottato, vada, cadendo a terra, in mille frantumi; e per condurla a tali termini si richieggono polsi di acciaio. Poi non vi è verso da far contento il fattore; quando i panellini non gli sembrano sodi a bastanza; gli disfà, e rimette nel caccavo, e liquefatti e bollenti vuole che si rimpastino. A non scottarci le mani le ungiamo di olio; e ne avessimo almeno a sufficienza! Spesso dobbiamo comprarlo di nostro. La mattina ci si accorda un po' di tregua, e ci mettiamo al lavoro con due ore di sole alzato; e spendiamo quel po' di tempo ora a fare il pane, ora a lavare, ed imbucatare i panni agli uomini nostri". "E se un concaro non ha moglie, chi gli fa il bucato?". "Una di noi, e, per tutti i sei mesi che dimoriamo qui, le dà 85 centesimi. Poi l'orologio ci chiama al tavolello, e tranne cinque minuti che ci accordano a mezzodí per mangiare, non ci togliamo dal tagliere prima che il pastone scodellato dal capoconcaro non sia ridotto a bastoncelli, E cosí lavoriamo a notte adulta, e spesso con la febbre addosso; perché il fattore è un cane, che non ci conta la giornata quando siamo malatelle". Questa parola le scappò con tanta grazia di bocca che noi la scriviamo quale l'udimmo.
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