Cantate qualche cosa, -- dicemmo ai concari, - e vi daremo il vino
. "Nel carcere si canta, ma non nel concio", ne risposero. Ci sedemmo al fuoco, ma i nostri occhi erano su quei poverelli. Dopo un tratto vollero contentarci, e maneggiando mestamente le fravosce intuonarono in quilio la seguente canzone:
Povara vita mia, chi campi a fariMo chi si chiusa dintra a quattru mura?
De mani e piedi mi fici ligariA na nívura (nera) fossa funna (fonda) e scura,
Sula a speranza nun mi fa schiattare,
E tu, rilogiu, chi mi cunti l'uri:
Tannu mi criju (allora credo) de mi liberari
Quannu mi dici: Su' vintiquattr'uri.
Un'infinita malinconia governava quel canto. Il concaro si dipingeva legato nelle mani e nei piedi, in fondo ad un abisso tenebroso, con gli occhi rivolti non al Cielo, non a Dio, ma all'orologio che gli conta il tempo. Ci segnammo nella memoria la canzone, e volgemmo l'occhio alle persone che ci stavano attorno. Il numero n'era cresciuto. Braccianti, mulattieri, pastori, e viandanti di tutti i paesi erano convenuti colà a passarvi la notte. Non mai vedemmo cere piú sinistre, non mai udimmo piú scellerati discorsi. Nelle loro conversazioni si metteano in ballo i disegni piú sanguinosi: si raccontavano imprese di briganti, audacie di carcerati; si narravano i vizii, e le abitudini dei nostri piú ricchi signori, e discutevansi le insidie tese a loro dai briganti per sequestrarli. A noi tardava un secolo di potere uscire da quel conciliabolo di gente famelica, che affrettava coi voti il ritorno della bella stagione per pigliare il mestiero del brigante, o del manutengolo; e quando fu giorno ci rimettemmo in viaggio.
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Cielo Dio
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