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      Il marinaro rientra in paese, mette in tuono la chitarra, e di notte innanzi all'uscio della Bella le canta cosí:
     
      Iu cumu aciellu m'aju misu l'aliPe' venire a trovari sa bellizza,
      Mi pari ne filuca 'n mienz'u (in mezzo al) mari.
      Quali Diu ti ha datu tant'artizza? (altezza)
      Iu sugnu nu valenti marinaru,
      Navicu sopra l'unni cu destrizza;
      E tannu sulu appunto e (smetto di) navicari
      Quannu 'n manu mi viegnunu si trizzi.
     
      La poesia di questa canzone è negli ultimi due versi. Egli è valente marinaro, e naviga bene sull'onde, ma solo allora cesserà di passare da flutto a flutto, quando gli verranno in mano le trecce della sua Donna! La sua donna è dunque una Nereide, una ninfa ignuda che vive sotto acqua in una foresta di coralli, ed egli vuol darle la caccia come la dà con la fiocina ad un'occhiata, ad una orata, ad una seppia; afferrarla per una treccia, ripigliarla se gli sguscia; e tenerla abbracciata tra le tempeste. E qui è la poesia; e bello è pure quel paragonarla ad una feluca. Il nostro popolo dice varca alla donna robusta, e filuchella alla vergine, che sia alta, svelta, e poca nei fianchi.
      Ma il marinaro è costretto a dividersi dalla sua filuchella. Credete che parta senza dirle addio? Le torna sotto la finestra e canta:
     
      O Bella, è fattu juornu, e l'arba è chiara,
      De la partenza mia venuta è l'ura (l'ora).
      Mo su benutu a mi licenziari,
      Pe fari ssa spartenza amara e crura (cruda)
      A varca de lu puortu si prepara;
      Chi sa stasira, o Díu! duvi mi scura!
      Si la nívura (nera) morti nun mi spara,


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Persone in Calabria
di Vincenzo Padula
Parenti Editore Firenze
1950 pagine 319

   





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