Per poco che ci facciamo a paragonare le descritte pratiche straniere alla maniera nostra di fare i caci-cavalli conosceremo quanto essa sia imperfetta.
Non si parla della pulitezza, che in questa materia deve essere portata allo scrupolo; i nostri caciai sono il ritratto del sucidume; nè noi usiamo miglior presame de’ ventricoli di agnelli che sono assai meno efficaci di quelli di vitelli. Compresso il cacio nella caldaja si comincia da noi a premerlo colla rotella, che è un bastone armato in punta di una piccola ruota di legno alquanto convessa esternamente, e tanto si comprime, che diventa come un pezzo di cuojo assai largo, ed alto appena due dita, in questo stato si conserva sino all’indomani; allora dopo fatto il nuovo cacio si versa nel siero ancor caldo il cacio così conservato del giorno antecedente, tagliandolo prima in fette minutissime, indi comincia a dimenarsi lentamente colla rotella, e comprimesi fintantochè quei pezzetti si liquefaccino, e tornino a combinarsi. Cavato il cacio dal siero si comincia a pigliar colle mani su di una tavola, rivoltandolo spesso finchè acquista quella forma di paralellepipedo. Or chi non vede che in quella seconda cottura che si fa fare al cacio le parti più grosse e più delicate di esso devono struggersi, e lascian la parte più dura e men gradevole!
Ad onta di tutto ciò noi siam ben lontani dal concorrere al pregiudizio di coloro che avrebbero a rossore di presentare alla loro tavola un cacio siciliano, e trovano indistintamente squisiti i caci forastieri, anche puzzolenti e verminosi.
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