Ma perchè ciò si ottenga, fa mestieri che il maggese fosse veramente ben fatto. Le sconce graffiature, che per lo più da noi si fanno alla terra, non meritano il nome di maggese, e molto meno possono arrecare alcuno degli accennati vantaggi. Per consuetudine e per antico stabilimento noi cominciamo a far maggese in gennajo, quando le arature sono fatali alla terra, che allora si stempera, non si prepara; stretti dalla necessità, continuiamo i nostri lavori senza verun riguardo allo stato dell’atmosfera e del suolo; il cardo selvatico, cynara silvestris, la cannuccia arundo vulgaris, ed ogni maniera d’erbacce e cespi, lungi di perire vengono più rigogliosi, e meglio semenziscono negli ordinarii nostri maggesi; finalmente, per l’imperfezione del nostro aratro, la terra da noi non può rompersi mai in tutti i sensi. L’aratro siciliano, essendo un cono irregolare senza coltro e senza orecchio, scassina e non isvolge la terra, ed invece di fare un solco piano, lascia una scanalatura: se in fatti si toglie via ne’ nostri maggesi la terra, smossa, resterà un fondo pien di bitorzi mascherati della terra laterale; onde la friabilità, in che consiste il primo vantaggio del maggese, è tutta apparente, e nulla reale. Per tali ragioni noi non esitiamo ad asserire che è meno male seminare in terra soda, a tirrozzu, che in un maggese malfatto.
Ma conviene agl’interessi dell’agricoltore fare un maggese secondo i precetti di sopra esposti? certo che no: se un agricoltore siciliano coltiva oggi un podere di 300 salme di terra, secondo l’avvicendamento che usasi dai più diligenti nostri agricoltori, dovrà in ogni anno lasciarne una terza parte a prato, una terza la farà a maggese, e l’ultima la seminerà a frumento.
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