Ma il male non si arresta lì. Le tante percosse fanno cadere tutte le fronde esterne dell’albero, e troncano le parti estreme dei rami; onde l’albero, invece di vestirsi di lunghe e copiose vermene, le quali portano la maggior copia d’ulivi, si para d’ogni intorno di seccumi, cagionati dall’esserne state sfrondate e maltrattate le parti più delicate, e diventa arsiccio, intristito, cagionevole.
Gandolfi raccomanda la pratica comune, com’ei dice, nel Genovesato ed altrove, di raccorre le ulive, scuotendo fortemente i rami dell’albero, ed in ciò siam d’accordo. Ma non so quanto sia da prestargli fede, ove dice che in quei paesi si lascian le ulive sugli alberi sino al principio della primavera, e si comincia a raccorle dal 1 aprile per tutto giugno ed anche luglio: ed assai fatti adduce per provare che, più tardi si colgon le ulive, più si guadagna nella quantità e qualità dell’olio. Senza porre ad esame la verità o il sano criterio di questo scrittore, altronde di gran peso, possiamo francamente dire che in Sicilia, passato dicembre, le ulive sono in maggior parte cadute, per la scossa de’ venti, che in autunno non mancano mai. In Cefalù e nel vicino paese si costuma di non coglier le ulive, ma raggranellarle in terra come via via vengon cadendo: ma esse non durano sugli alberi al di là di febbrajo. Ora è da considerare che questo sistema porta seco due gravi inconvenienti: 1. Gli uliveti bisognano zapponarsi dal marzo in poi; che se si zapponassero e letamassero in gennaio, le ulive cadendo in un suolo coltivato, concimato, acquitrinoso, sarebbero perdute; 2. Siccome da gennaio in poi poche ulive restan sull’albero, pochissime diariamente se ne trovano cadute, le quali non pagherebbero certo la spesa degli animali e degli uomini impiegati al frattoio ed al torchio; onde bisogna conservarle lungo tempo, e poi trarne l’olio o a dir meglio la sentina.
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