6, pag. 23). — Chi poi volesse una larga prova della ignoranza, in cui vivono i nostri mandriani rispetto alle infermità delle pecore, osservi soltanto che presso noi la marciaja non ha un nome particolare, e che tutti i suoi sintomi si riguardano come tanti varii malori di natura diversa.
Sarebbe oramai desiderabile che ogni padrone di pecore volgasi attentamente a questo importante soggetto. Molti già ne scrissero alla distesa; e con essi, e col lungo uso della pratica facilmente verrebbe a capo d’istruire minutamente il suo pecorajo sui rimedii di quelle infermità, le quali sono o più comuni fra noi, o più ignorate, o più dannevoli; come sarebbero il mal di sangue fra le prime, la marciaja fra le seconde, e da ultimo tutte le malattie di contagio, che mandano a rovina una greggia intiera.
Quanto a noi sarebbe impossibile il trattarne per ora minutamente, attesi i brevi confini di poche pagine a cui siamo costretti. Non potremmo che cennare alla sfuggita, ed il cennare intorno a ciò è sinonimo del tacere.
È vano, dopo il detto fin qui, l’aggiungere qualche cosa ancora sui mezzi di migliorare la razza. Noi siamo ben persuasi che tutti gli ostacoli messi avanti sono puramente imaginarii, e che, con tenue spesa e molta cura, si potrebbero venire sostituendo i merini alle pecore siciliane, anche nelle greggi più numerose. Ma ci si dice prima d’ogni altro, se i merini, governati in tal guisa, potrebbero far altro che deludere le speranze di chi volesse introdurli?
Il mestiere del pecorajo in somma non è quello dell’ozio; ed a scegliere un buon mandriano deve gittarsi l’occhio al più illuminato ed al più spogliato di pregiudizii.
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