A NICCOLÒ PALMERI, nato in Termini dal barone Vincenzo a 10 agosto 1778, non mancarono nella sua prima età quegli ostacoli che sogliono per lo più dai pedanti opporsi al naturale sviluppo degl’ingegni ancor teneri, e che chiamano studî. Quel metodo che, a ritroso della ragione, muove da principî indefiniti, e che suppongono la facoltà di astrarre e generalizzare le idee, fu il metodo con che lo ingegno di Niccolò ebbe a lottare nei suoi primi anni. E dico lottare perchè i principî astratti grammaticali, e le teorie di precetti magistrali, non desunti a modo di osservazione dal fatto, e non al fatto applicati, è lo scoglio da cui fra i mille fanciulli uno appena si salva.
Ai dieci anni, o poco più di sua età, l’abbatuzzo pedante vedevalo con istupore tradurre le orazioni di Cicerone, le odi di Orazio, e quanti altri modelli gli proponea all’intendimento dell’aureo latino, come all’apice dell’umano sapere. Nè a dare gli ultimi tratti alla compiuta educazione di quel fanciullo mancarono le raccolte poetiche del Muratori e del Ceva. Le mandre arcadiche, cacciate da quello intemperante Cesarotti dal continente italiano, erano venute a rifuggirsi nei pacifici ozî di queste campagne; e però il fanciullo ripetea mirabilmente a memoria i capo-lavori dei più cospicui pastori.
Un anno e più appresso il padre di lui, uomo di retto senno, e che nell’applicazione delle teoriche agrarie ebbe merito di precorrere l’istruzione del suo paese, recava il figlio a Palermo, ove per consiglio di Giov.
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