Pure la novella prova andò vana. Non sentivasi tratto Niccolò a quelle minute cure, a quella operosa attività, di che componesi un esatto governo. Vagheggiando i principî delle teoriche agrarie, non sapeva piegarsi ai particolari dell’applicazione di quelle; e mentre lo studio della scienza eragli un bisogno abituale, quella vita agricola venne, dopo alquanti anni, ad increscergli. Però di là tornava al paese natìo; quindi davasi avidamente alla studio dell’inglese, onde in brev’ora potè conoscere ed aver familiari gli scrittori di quell’idioma, in che poi sempre si piacque.
Appressavasi intanto quell’epoca memorabile, in cui la Sicilia esser dovea nuovo esempio, come le armi straniere non sieno, in apparenza, propizie, che finchè torni lor conto, e come al di là di quell’interesse sia stoltezza il fidarne.
Già il colosso Napoleonico, per le nuove invasioni della estrema parte d’Italia, avea resi i nostri porti oggetto di cupidigia alle sospettose armi britanniche. Richiamati sotto l’ombra di quelle al potere supremo quei pochi baroni, che necessarî parvero a novo ordine di cose politiche, Niccolò Palmeri fu gran parte di quelle vicende. Il nuovo ministero, e più Castelnuovo, ministro della finanza a quel tempo, giovavasi dei consigli e dell’opera sua; talchè immense fatiche durò sul nostro diritto pubblico, quando di quello del 1812 ebbe a rifondersi l’antico Parlamento di Sicilia. E in quel parlamento venne egli per via di procura a sedere nel braccio baronale. Poi nella forma novella dei due seguenti anni pria la città, poi l’intero distretto di Termini eleggevalo suo deputato.
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