Mi passo, come cose a tutti notissime, le sciagurate contese che divisero allora gli animi tutti fra noi. Ricorderò solo com’egli, inaccessibile del pari alle seduzioni dell’ambizione potente, e alle noiose o subdole declamazioni d’avventati popolani, seppe tenersi per una via, che procacciavagli poscia quella onorata povertà in cui finiva i suoi giorni. Potè quindi nel secreto dell’animo disprezzare altamente e i piaggiatori dei potenti ambiziosi e i simulati popolani, quando li vide levarsi a subite e inattese fortune.
Era il dicembre del 1816, e dolente ritornava al paese natìo. Quivi chiudeasi in quell’amara solitudine del cuore, che il disinganno doloroso della vita e degli uomini gl’insegnarono ad apprezzare: quivi non vagheggiò che un pensiero: poi che ogni altra speranza era vana, giovare dell’ingegno la patria.
Però renitente rendeasi agl’inviti di egregi e pochi amici, che alla capitale il chiamavano. Rivedevali a quando a quando, e riducevasi tosto al suo prediletto ritiro, ove, meditando sulle condizioni economiche della sua patria, se spesso ebbe a piangere, non mancò di conforto nel vagheggiarne i rimedî.
Pure quell’apparente tranquillità, quella calma filosofica, in cui per un intiero lustro parve racchiudersi, era cenere, che copriva il foco di un’anima ardente, che a novello soffio dovea divampare.
Nè le prime illusioni svanite, nè i disinganni sofferti valsero a rattenerlo quando l’estrema parte d’Italia levandosi a nuove speranze, insorgeva Sicilia, e vantando antichi diritti, seguir voleva l’esempio e non i dettami di quella terra.
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