Ben egli sentiva come la gloria degli avi torni ad infamia dei nepoti, che non sanno rivendicarla od emularla coll’opre. E sì movevasi a schifo di quelle noiose iattanze di chi va tuttodì adulando Sicilia colle rimembranze di una gloria che fu. L’amava (e chi l’amò quanto lui!) ma di quell’amore virile, che non adula l’ignavia, ma la flagella tanto che si scuota una volta.
Or chi nella vita degli uomini muovesi ad ammirare quei fatti soltanto, che per pubblici eventi suonano clamorosi al cospetto di tutti, dovrà stimare civilmente nullo quel periodo della vita di Niccolò Palmeri che dal 1821 corre al 1837, in cui finiva i suoi giorni; però ch’egli non pompeggia d’allora per vicende politiche; non per pubblici ufficî; non infine egli appare cittadino operoso. Ma chi all’incontro conosce come in talune condizioni civili altro partito non resti alle anime generose fuor che un ozio magnanimo; chi sa come spesso più valga il non fare che il fare, ove il non fare è bellissimo esempio di virtù cittadine; chi sa in fine come Niccolò, caduto dalle ricchezze, ove nacque, nell’indigenza, e pur lottando colle prime necessità della vita, non lodò, non richiese i potenti, e nulla ne ottenne, perchè nè lodare, nè chiedere senza avvilirsi ei potea, dovrà in esso ammirare quella ostinata tempra dell’animo, che se fra’ contemporanei procaccia la dimenticanza dei più, la simulata invidia dei pochi, costringe pure l’ammirazione dei posteri.
E alla imperterrita posterità solo ei volse il pensiero negli ultimi anni della sua vita.
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