Come ebbe avviso Gelone di ciò che da quel lato seguiva, ad un punto preso spinse avanti l’esercito, per attaccare dentro i ripari i Cartaginesi; e questi vennero fuori ad incontrarlo. Pari era il desiderio di venire alle mani; pari il valore dei due eserciti. Nell’uno prevaleva il numero; nell’altro la disciplina, l’amor della patria, il gran nome del capitano. Però con ostinata ferocia si pugnò per più ore, finchè il fumo e le fiamme dell’altro lato non superarono i frapposti colli. Tutti i combattenti in un punto si soffermarono e colà rivolsero gli sguardi. L’ira diede luogo alla maraviglia. Ma la maraviglia fu seguita da un subito spavento degli Affricani, al divulgarsi la nuova del duce loro estinto e del naviglio inceso.
Quell’immenso esercito, che s’era dato vanto d’allagare tutta la Sicilia, si trovò, quando meno se lo pensava, in terra nemica, senza capitano, senza viveri, senza bagaglie, senza speranza d’ajuto, senza pure una scafa per salvarsi. La stessa innumerevole moltitudine accresceva la confusione dei Cartaginesi. Molti, sopraffatti dal terrore, si volsero a fuggire in rotta: ma pur nella fuga non trovavano scampo; come passavano su quel d’Agrigento, v’erano presi a man salva. Degli altri, che in alcun modo tenean la puntaglia, i Siciliani fecero macello; che Gelone avea bandito di non dar quartiere. Centocinquantamila, che ne restavano ancora, ritrattisi sulla giogaja dell’Euraco, tentarono di far fronte. Ma, vinti in breve dalla sete (che il sito è aridissimo), si resero tutti prigionieri sul far della sera.
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