Alla voce d’essere attaccato l’Epipoli, vi accorse tutta la città in armi con Gilippo alla testa. I primi furono volti in fuga. Una schiera di Tebani, che appresso veniva, fece tal prova, che finalmente gli Ateniesi voltaron faccia. La luna, ch’era sul tramonto, facea vedere, non distinguere gli uomini. Le schiere ateniesi, che seguivano, tennero quei primi che verso loro fuggivano, nemici che correano ad assalirli; e contro di essi si avventarono. I soldati che fuggivano, erano Argivi e Corciresi, che cantavano l’inno di guerra in dialetto dorico; ciò maggiormente confermò gli altri nello errore d’essere Siciliani. L’errore comunicandosi di schiera, in schiera, fece che i Greci ferocemente combattessero fra essi. I Siciliani nel tramazzo ne facevano strage; assai ne perirono nel conflitto; assai nel fuggire precipitarono da quelli scosci; coloro, ai quali venne fatto allora campare, colti il domane dalla cavalleria, ne furono messi a morte.
La perdita di quella battaglia; la morìa che soffriva l’esercito per l’aria malsana delle pianure ov’era accampato; la sicurezza di non potere più sperare rinforzo da Atene, fecero sbaldanzire Demostene; sì che propose di lasciare la mal condotta impresa e ritornare in Grecia. Nicia vi si oppose da prima, sperando ancora che col temporeggiarsi, senza tentar più la fortuna, potea finalmente ottenersi alcun vantaggio. Ma, come vide che le forze dei Siracusani d’ora in ora più si accrescevano, per li soccorsi che sopraggiungevano dal Peloponneso e dalle altre città di Sicilia, anch’egli propose la partenza.
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