Da veruna delle due parti inchinava la vittoria. Nessuno facea vista di cedere. Tutti voleano perire piuttosto che incontrare, salvandosi, peggio che la morte, il vitupero dei suoi. Pur finalmente, venuto meno la vita ai più, la forza a tutti, il coraggio a nessuno, cesse la battaglia. Di tutta l’armata ateniese, solo sessanta galee restarono; della siracusana, men che cinquanta, e, più delle tante galee, fu sensibile ai Siracusani la perdita del prode Aristone da Corinto. Ma gli Ateniesi non poterono rompere il palancato.
XI. - Volevano Nicia e Demostene avvantaggiarsi del maggior numero di galee loro rimasto, e dell’essere i Siracusani dediti a celebrare gavazzando le feste epinicie (24), per tornare la notte stessa alla sprovveduta ad aprire il passo; ma le genti eran così rifinite, che non poterono indurvisi, e fu giocoforza tentar la fuga per terra. Per colmo di sventura, Nicia si lasciò gabbare da Ermocrate, generale siracusano; il quale da finte spie lo fece avvertire di non partir quella notte, perchè i Siracusani erano in arme a guardare i passi. Però gli Ateniesi soprastettero quella notte, e tutto il giorno appresso. Così i Siracusani ebbero il tempo di spargere la loro cavalleria per tutti i luoghi, che i nemici dovean traversare, e di rompere i ponti. Finalmente mosse l’esercito ateniese, in due schiere diviso, ognuna delle quali era disposta in quadrato, nel centro eran le bagaglie. Nicia comandava la prima; Demostene coll’altra lo seguiva. Tanta fu la precipitanza della fuga, che lasciarono in balia del vincitore gli ammalati e i feriti.
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