Pochi cittadini restarono risoluti a perire colla patria; e quei pochi sostennero essi soli, il domani, l’assalto di tutto l’esercito cartaginese. Nè potè venir fatto ad Annibale in tutto quel giorno di penetrare in una città mezzo diruta, difesa solo da un pugno d’eroi. Al nuovo giorno, essendo già in vista le navi siracusane, che tornavano, i Cartaginesi rinnovarono con più rabbia l’assalto. Con pari valore si difendevano gl’Imeresi, quando un gran tratto di muro crollò. Un corpo d’Iberi penetrò per quella via in città, ed aprì il varco agli altri. I pochi difensori non poterono far fronte a tutti. La città fu presa. Spogliatine i tempî e le case; trattone quanto v’era di prezioso; e, fra le altre cose, le celebri statue di bronzo rappresentanti Stesicoro, vecchio, curvo sul bastone, con un libro in mano; Imera; e la capra; la città fu dalle fondamenta spianata, in modo che pochissimi avanzi ne additano il sito, che tutt’ora conserva il nome di piano d’Imera. Ma tutto ciò appagava la pubblica vendetta, non la particolare. Annibale frenò sulle prime la rabbia de’ soldati, che mettevano a morte quanti cittadini loro si paravano innanzi. Volle serbato a sè solo quel feroce trionfo. Tremila cittadini, che restavano, furono da lui tratti nella pianura, ove l’avo avea perduto la vita. Ivi, fattili prima crudelmente scudisciare, l’un dopo l’altro, tutti li sgozzò. Tale fu la tragica fine d’Imera, dugento quarant’anni dopo di essere stata edificata.
I rapidi progressi dell’armi Cartaginesi spaventarono tutte le città siciliane.
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