I Reggini, comechè disperati di soccorso, si accinsero con gran cuore alla difesa. Quanti erano atti a portar le armi, le presero; e, capitanati da un Pitone, fecero mirabili prove. Non che si difendevano entro le mure delle numerose macchine poste in opera dagli assalitori; venivano spesso fuori e le incendiavano. In varie sortite molti di essi perivano; ma non minore era il numero dei nemici che cadevano. Lo stesso Dionigi in uno di quegl’incontri fu per lasciarvi la vita, ferito di lancia presso il pube; ed assai tempo passò prima di guarirne. Però, disperando di prendere la città d’assalto, la cinse d’assedio. Padrone del mare che gli infelici Reggini non avean più una scafa; padrone della campagna, chè nessuno si movea in favor loro, potè accerchiare la città in modo, che impossibile divenne il trar viveri ed altro da fuori.
Ciò non però di manco, i Reggini non si piegarono. Quando ebbero logorati tutti i viveri, si diedero a mangiare i cavalli, i cani e fino i più sozzi animali; e, finiti anche questi, ne bollivano le cuoja per cibarsene; e venivan fuori per addentar la poca erba, che nascea lungo le mura (37). Dopo undici mesi d’assedio, peritine gran numero di fame, i pochi, che mal vivi restavano, s’arresero (an. 2o Olimp. 98: 387 a. C.). Trovò Dionigi la città popolata solo di cadaveri; perocchè, dal lento muoversi in fuori, i vivi non erano allo aspetto dissimili dagli estinti, che a migliaja ingombravano le contrade. Pure quello spettacolo non valse ad allentare la rabbia del tiranno.
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