Dionigi, convinto da que’ detti, con profonda dissimulazione cominciò a fare a Dione miglior viso del solito; trattolo poi un giorno, amichevolmente cianciando, al lido sotto la cittadella, cambiando ivi contegno, gli mostrò la lettera da lui scritta a Cartagine; con poche asprissime parole gli rinfacciò il tradimento; e senza permettergli pure una parola in sua discolpa, lo fece salire su d’una nave, che pronta era, e lo mandò via.
III. - Tutta la fazione repubblicana fu costernata da tale inaspettato avvenimento; Platone lo fu più degli altri. Il tiranno, per tranquillare gli spiriti, dichiarava non avere bandito Dione, averlo solo allontanato per poco tempo. E per mostrare di non aver alcun mal’animo contro di lui, lasciò a’ suoi congiunti l’amministrazione de’ suoi beni, che grandissimi erano; e diede a Megagle, di lui fratello, due navi, per mandargli nel Peloponneso, ove s’era ritirato, masserizie, arredi, danaro e quanto potea aver mestieri. Addoppiò al tempo stesso le sue carezze a Platone, per indurlo a dimenticare l’amico. Ma il filosofo ostinatamente chiedea o il ritorno di quello, o la libertà di partire; e tanto più ostinatamente lo chiedea, in quanto vedea già dileguate le sue speranze di ridurre a migliori costumi il tiranno. La crapula, l’ubbriachezza, le sfrenate lascivie erano tornate in moda.
Dionigi si ostinava a pretendere che il filosofo, non che restasse, ma preferisse nella sua amicizia lui a Dione. Lo pregava, lo minacciava, poi si pentiva delle minaccie e chiedea perdono.
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