Spaventevole riguardo offriva la città. Le contrade erano allagate di sangue e sparse di cadaveri; il giorno era oscurato dal fumo e dal polverio delle case, che ardevano e rovinavano; le orecchie erano assordate dal fracasso degli edifizî, che cadevano, dai gemiti di coloro che in varie guise perivano, dai lamenti di coloro che fuggivano, dalle feroci grida degli assalitori. Eraclide stesso tenne del tutto spacciata la città, se non accorreva Dione. Suo fratello e Teodote suo zio corsero a pregarnelo in suo nome.
Era allora egli a pochi passi della città. Alle preghiere di costoro e di tutti i fuggitivi volò. Entrò per quella parte che dicevasi Ecatompedo, e spinse addosso ai nemici le truppe leggiere. Ordinò poi in lunga schiera i soldati di grave armatura e tutti i Siracusani, che, ripreso cuore per la sua venuta, traevano da tutte le parti. Li divise in più compagnie, che diresse per diverse vie onde venissero poi a sboccare da molte parti. I cittadini mettevano alte grida, ora minacciando i nemici, ora facendo voti agli Dei, ora esortandosi vicendevolmente, ora chiamando Dione loro salvadore, loro Dio, ed i soldati stranieri fratelli e concittadini. Dione dava loro l’esempio, gittandosi il primo fra il sangue, il foco, le rovine e i cadaveri, che ingombravano le vie. Quegli stessi intoppi non permettevano di venire ad ordinata battaglia. Pochi contro pochi combattevano nelle piazze, nelle contrade, ne’ vicoli, negli angiporti. I Siracusani, con quanta paura poco prima fuggivano, con tanta audacia venivano ora da tutte le parti al cimento.
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