Nessuno straniero a Siracusa arrivava, che il popolo nol menasse a Timoleonte; nè altro nome gli davano che quello di benefattore. E si stanziò, che in ogni caso di guerra straniera (49), da Corinto esser dovesse il comandante delle armi. Pure invece d’esser gonfio delle sue azioni, le attribuiva egli alla fortuna. Di questa cieca dea si mostrava devoto; eresse in casa sua un’edicola al caso fortuito; tal nume adorava; a tal nume sacrificava; a tal nume la casa stessa dedicò. Nè pativa d’esser meno soggetto alle leggi di qualunque altro cittadino. E qui ben cade in acconcio il detto di Simonide, riferito da Plutarco, che ogni allodola aver deve la sua cresta, ogni democrazia i suoi calunniatori. Due oratori popolari vi furono, che nell’assemblea attaccarono Timoleonte. Lafistio chiese che egli desse mallevadori per una lite; volevano gli astanti levarsi a tumulto; nol consentì egli, dicendo, non ad altro fine avere egli volontariamente incontrato tante fatiche e tanti pericoli, che per fare che ogni cittadino potesse valersi dalla legge. Demeneto in un lungo discorso in piena assemblea, si fece a redarguire la sua condotta: null’altro rispose Timoleonte che levare le mani al cielo, e ringraziar gli Dei di aver concessa ai cittadini la libertà di parlare, di chi gli avea sempre supplicati.
Finalmente gli anni più che di una lieve malattia lo trassero a morte nell’anno 4o della 110 Olimpiade (337 a. C.). Scorsi alcuni giorni per allestire i funerali, e dar tempo alle genti straniere e alle vicine d’accorrere, il feretro pomposamente ornato, soffolto da giovani eletti a partito, fu portato a traverso la piazza, ove erano state le reggie dei tiranni.
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