Ottenne così che quelle navi non fossero cadute in mano del nemico, come sarebbe certamente avvenuto, se le lasciava in quel lido o le mandava in Sicilia; e i soldati erano ridotti alla necessità di vincere o di morire.
VI. - E perchè non si raffreddasse l’ardore della sua gente, si diresse diviato contro la gran città. Amenissimi campi traversò l’esercito. Sparso era il paese di ville magnifiche, di ridenti giardini, irrigati da larghe sorgenti, di prati coperti di ricche produzioni e di campagne sterminate, nelle quali erravano mandre ed armenti numerosissimi. Tutto mostrava la somma opulenza dei Cartaginesi, e tutto concorreva ad animare le speranze del soldato di acquistarvi grandi ricchezze. Ne tali speranze andarono fallite. La gran città e poi Tunisi furono prese e saccheggiate. Saputo in Cartagine lo sbarco e i progressi de’ Siciliani, somma fu la costernazione. Si tenea certo essere stati del tutto distrutti l’esercito e l’armata di Sicilia: senza di che non si credea possibile che Agatocle avesse potuto venir fuori. Un avviso giunse opportunamente d’essere in buono stato le cose in Sicilia.
Incuorata la repubblica da tale notizia, si diede a raccorre gente. I cittadini si armarono; la sacra coorte, composta da duemilacinquecento dei più nobili fra essi, fece parte dell’esercito, che sommò a quarantamila fanti, mille cavalli e duemila carri. Ne fu dato il comando ad Annone e Bomilcare. Erano costoro nemici. Si pensò che la loro nemicizia rendea impossibile un tradimento.
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