A tanta burbanza gli ambasciatori risposero con un amaro sogghigno. La guerra fu dichiarata. Epicide ed Ippocrate, che avevano militato sotto Annibale, ebbero il comando dell’esercito siracusano. Con duemila soldati vennero tentando le città, nelle quali era presidio romano. Lo stesso Geronimo con quindicimila tra fanti e cavalli venne a fermarsi in Leonzio.
Le sognate grandezze tornarono allora in lutto per l’inesperto re. Venuto in odio per gl’insolenti modi suoi, e per quella guerra mal gradita al più de’ Siracusani, che rispettavano la memoria e la politica del gran Gerone, la congiura svelata da Celone, per cui l’innocente Trasone aveva avuto morte, s’era estesa anche fra i soldati. Mentre dal suo palazzo si recava per un’angusta via alla piazza; un Dinomene, che fra le guardie era e dietro lui veniva, chinatosi, come per islacciarsi un calzare, fece così stare in dietro le altre guardie. I congiurati, assalito il tiranno, che solo si avanzava, lo misero a morte.
Soside e Teodoro, capi della congiura, corsero a Siracusa, per frastornare le mire d’Andronodoro. La fama gli avea precorsi. Andronodoro s’era già afforzato in Ortigia. Giunti sul far della notte all’Esapile, mostrando da per tutto l’insaguinata clamide e ’l diadema del tiranno, incitavano il popolo a libertà. Molti dei cittadini, com’essi entrarono in Tica, si facevano agli usci, e molti traevano dietro a loro. Chi aveva armi, le prese e venne fuori, chi non ne aveva corse al tempio di Giove olimpico, ove Gerone aveva riposto le armi de’ Galli e degli Illirici, che i Romani aveano mandato in dono all’amico re.
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