I due fratelli che vi comandavano, per non farli entrare in città, loro vennero incontro con grande accompagnamento d’armati. I messi romani, senza spaurirsi di tale apparato guerriero, dissero: non essere venuti i Romani a portar guerra a Siracusa, volere anzi liberare i Siracusani dall’oppressione in cui erano; volere vendicare la morte infame data agli amici di Roma; volere che sicuramente tornassero in patria coloro che erano rifuggiti al campo romano; volere consegnati gli autori di tante perturbazioni e di tanta strage. A tal partito Siracusa sarebbe libera; negandosi, i Romani avrebbero usate le armi contro coloro, che osavano opporsi all’amicizia di Roma.
I due pretori risposero: che, per non essere quel messaggio a loro diretto, non potevano eglino rispondere; tornassero quando il governo di Siracusa fosse in altre mani; e sapessero che, se Marcello co’ Romani suoi avesse osato ricorrere alle armi, avrebbe conosciuto per prova, Siracusa non essere Leonzio. Nulla ritenne allora più Marcello dal venire alle armi. Sperava egli espugnare al primo impeto una città scissa dall’interne fazioni, e così vasta, che fra le tante parti, delle quali era composta, facile teneva trovarne alcuna meno difesa, per cui farsi strada. E forse ciò gli sarebbe venuto fatto, se in Siracusa non fosse stato Archimede, che solo valse un’esercito.
Furono allora da quel famoso matematico poste in opera quelle macchine, che da lui, o inventate, o meglio costrutte nel regno di Gerone, si tenevano in serbo negli arsenali.
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