Il console, dato ad Appio il comando delle schiere terrestri, sì accostò alle mura d’Acradina con sessanta quinqueremi, sulle quali erano quante macchine gl’ingegnieri romani aveano saputo inventare per l’oppugnazione della città. Famosa sopra tutte era quella, che sambuca chiamavano, per la sua forma simile a tale strumento. Era questa una scala larga quattro piedi (83), e lunga sì, che giungeva all’altezza di qualunque muro. Avea d’ambi i lati una balaustrata, coperta di cuojo, nella estremità era un pianerottolo, difeso da graticce, sul quale stavano pochi soldati; si teneva coricata sopra otto barche l’una all’altra legata. Come queste erano presso le mura, con funi passate per le carrucole ch’erano in cima agli alberi, e con uomini che la spingevano, la macchina era elevata all’altezza, che si volea, ed appoggiata alle mura. Coloro che erano sul palco cominciavano l’attacco, e l’altre schiere che rapidamente salivano, venivano ad ajutarli a cacciar dalle mura i difensori.
IV. - Già le galee s’appressavano, già la sambuca cominciava a torreggiare, quando si vide volare dall’alto delle mura un macigno del peso di dieci talenti; poi un’altro; e poi un’altro, i quali con ispaventevole rombo vennero a percuotere la sambuca e le galee che n’erano base, e ne furono sgominate queste, fatta in pezzi quella. Al tempo stesso una tempesta di ciottoloni e travi con punte di ferro fu scagliata contro le navi romane, per cui altre ne erano affondate, altre rovesciate, e in tutte grande era la strage degli uomini.
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Appio Acradina
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