Pure tutto ciò fu un nonnulla a rispetto di un’altra invenzione, che sarebbe affatto incredibile, se Plutarco, Tito Livio e Polibio non fossero concordi nel narrarla. Sulle mura furono elevate smisurate antenne, poste in bilico, sì che potevano alzarsi od abbassarsi colla celerità che si voleva. Avevano in punta lunghe catene, che terminavano con pesanti mani ed uncini di ferro. Alzata prima l’antenna, e poi velocemente abbassata, quelle mani venivano a percuotere le barche con violenza proporzionata al peso ed alla velocità loro; onde la percossa bastava a frangerle o sommergerle. Ma facevano di più: le afferravano, e poi, alzata l’antenna con grandi contrappesi, le levavano di tutto peso. Uomini, macchine, armi che sopra v’erano, rabbatuffolati andavano giù; e la barca stessa, dopo avere dondolato in aria, lasciandola cadere, o sommergevasi o si rompeva negli scogli. Nè manca fra gli antichi scrittori chi assicuri d’avere allora Archimede incese le navi romane cogli specchi ustorii (84).
Ritrattosi da tanto eccidio il console, sperò di fare miglior prova, assalendo la città dalla terra. Pensava egli che le macchine, per essere poste in alto, offendevano solo in distanza; per lo che, se veniva fatto ai suoi soldati di giungere sotto esso le mura, potevano essere esposti solo alle ordinarie offese, e queste si confidava di superare. Ma le mura di Siracusa erano nel basso piene di spesse balestriere, fatte in modo che esternamente non apparivano. Nel cuor della notte s’avanzarono i Romani, e s’inerpicarono sopra le rupi, sulle quali sorgevano le mura.
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