Lungi di riportarne alcuna punizione, ottenne la pretura di Sicilia. Per maggiore disavventura della provincia, il suo governo bastò tre anni; ed in quel tempo, colla insolenza propria del delitto impunito, spogliò tutte le città de’ diritti loro, e diresse tutte le sue operazioni a depauperare i Siciliani.
Giunto appena in Sicilia, seppe che anni prima era pervenuta una pingue eredità ad un Dione da Alesa, al quale il testatore aveva dato l’obbligo di erigere alcune statue nel foro, pena la caducità in favore di Venere Ericina. Era allora pretore C. Sacerdote, uomo incorrotto. Dione avea posto le statue; nessuno lo avea molestato. Verre, ciò malgrado, volle pigliar cognizione di ciò. Fece richiedere Dione, per comparire innanzi il suo tribunale; ma i giudici che egli designava, erano il suo medico, l’accenso, l’auruspice ed altri della sua iniqua corte. Non fece istanza il questore, cui toccava, ma si fece comparire accusatore un Nevio Turpio, uomo veramente turpe. Fu forza a Dione per non perdere tutta l’eredità, dare al pretore un milione e centomila sesterzî, un’armento di bellissime cavalle e tutto l’argento e le tapezzerie preziose che in casa aveva.
Un’altra eredità era pervenuta, erano già ventidue anni, a’ due fratelli Sosippo ed Epicrate da Agira dal comun padre, il quale avea imposto loro non si sa quale obbligo, pena la caducità in favore di Venere. In tutto quel tempo nessuno gli aveva accusati, nissun pretore gli avea molestati. Verre non lasciò scapparsi la congiuntura.
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