Verre fece torla giù. Ciò non appagava ancora la sua vendetta. Si diede ad istigare i nuovi ospiti a proporre alcuna accusa contro Stenio. Dicevano coloro non avere nulla da potere apporre e provare contro di lui. Finalmente, incuorati dalla promessa del pretore di ricevere qualunque accusa, senza che eglino si dessero pensiere di provarlo, dichiararono d’avere Stenio, mentre era pretore C. Sacerdote, falsificata una scrittura pubblica. I Romani avevano lasciati alla repubblica termitana le sue città, il suo territorio, le sue leggi, ed in forza di queste leggi e di quelle bandite da Rupilio, in un piato tra cittadini, i giudici doveano essere tratti dal luogo stesso. Stenio lo chiese invano. Vetro dichiarò: non altri che lui dovere decidere. Era a tutti noto che cercava costui quel pretesto, per infliggere a Stenio, a dritto o a torto, l’ignominiosa pena dello scudiscio; per lo che Stenio fuggì a Roma. Arrovellato per quella fuga, sulla nuda accusa, lo dichiarò reo; lo condannò alla multa di cinquanta milioni di sesterzî; ordinò la vendita de’ beni, per trarne il denaro; e si sarebbero venduti, se il danaro non fosse stato di presente pagato (95).
Nè contento a tale iniquità, dal seggio stesso dichiarò, che avrebbe ricevuta qualunque accusa dì delitto capitale contro Stenio, comechè assente. Gli stessi Agatino e Doroteo se ne fecero coscienza. Aizzati da Verre a mettere avanti tale accusa, dissero: essere eglino nemici di Stenio, ma non al segno di voler la sua morte. Finalmente trovò un Pacilio, uomo da nulla, che si mostrò per far l’accusa che si volea; e Verre assegnò il giorno primo di dicembre, per comparire innanzi al suo tribunale in Siracusa.
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