Stenio in questo era già in Roma. Le grandi amicizie, che vi aveva, resero clamoroso il suo caso. Venne in senato; aringò la sua difesa; i consoli Cn. Lentulo, L. Gellio proposero un decreto, per levare a Stenio la molestia. Tutto il senato era a lui favorevole. Gravi affari insorti, impedirono che per quel giorno il decreto fosse vinto. Il padre di Verre, che avea cercato di difendere il figlio, visto il pericolo, in cui questo era di trarsi addosso l’indegnazione di tutto il senato, cominciò a pregare d’uno in uno gli amici e gli ospiti di Stenio, lui stesso, a non istanzare più oltre; promettendo egli di spedire messi al figlio, per avvertirlo a cessare da ogni persecuzione contro Stenio, rendendosi mallevadore della riuscita. Stenio e gli amici suoi si lasciarono piegare. Il vecchio Verre scrisse efficacemente al figlio; le sue lettere giunsero prima delle calende di dicembre. Ma Verre, non facendo alcun caso delle preghiere e degli avvertimenti del padre, come venne il giorno designato, fa citar l’accusato. Non v’era. Fa citare l’accusatore. Non comparisce. Senza l’accusato, senza l’accusatore, senza prove, Stenio fu condannato a morte.
Tutte le città reclamarono in Roma per tale iniquità. Cn. Lentulo, patrono di Sicilia, ne fece alte querele in senato. I tribuni della plebe decretarono: non dover valere contro Stenio la legge, che vietava il restar liberi in Roma coloro, ch’erano stati dannati a morte nelle provincie. Tanti clamori fecero entrar Verre in pensiere. Cercò sottrarre la prova d’aver condannato un assente, con un nuovo delitto.
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