Da’ pochi registri della dogana di Siracusa, che venne fatto a Cicerone di aver per le mani, si conobbe d’avere egli asportate da quel porto, in pochi mesi, tanto d’oro, d’argento, di avolio, di scarlatti, di vesti maltesi, di tapezzerie, di masserizie di Delo, di vasi corintî, di frumento e fin di mele, che il valore ne sommava ad un milione, e dugentomila sesterzî, di cui la dogana (ch’egli non pagò) importava quarantamila sesterzî. È facile indi argomentare quanto ebbe a trarne in tre anni, da tutti gli altri porti di Sicilia, e particolarmente da Messena, ch’era come il fondaco de’ suoi furti, ove si costrusse a spese pubbliche una nave di straordinaria capacità, per lo più facile trasporto delle sue prede.
Ma le più gravi calamità, che costui recò alla Sicilia, vennero dall’iniqua esazione delle decime. Appena posto piede in Sicilia, con suo editto cancellò la legge geronica, e stabilì un nuovo e più spedito modo di riscuotere il tributo. Tanto pagasse l’agricoltore, quanto stabiliva il decumano. Per dare un colore alla cosa, minacciava la pena dell’ottuplo al decumano, che avesse esatto più del giusto; ma minacciava egualmente la pena del quadruplo all’agricoltore, che volesse pagar di meno. E dichiarò, che il giudice di tali contese fosse egli stesso. Era noto che egli riscuoteva per suo conto il tributo, facendo comprare le decime ad alcuno de’ suoi familiari e particolarmente ad un Apronio iniquissimo fra tutti. Per lo che l’agricoltore, che avesse fatta querela delle estorsioni del decumano, null’altro avrebbe ottenuto, che lo esser dannato a pagare il quadruplo.
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