Senza entrare nella lunga e fastidiosa narrazione degli atrocissimi fatti, esposti da Cicerone, basta il dire che fortunati furono quegli agricoltori, i quali, in vece d’una, pagarono tre decime. Ma questi furono ben pochi. Assai ve ne furono, dai quali fu estorta tutta la produzione del campo. Nè mancarono di quelli che, spogliati del prodotto, del bestiame, de’ rustici arredi, furono cacciati dal podere. E, perchè il frumento estorto era tutto preda del pretore, i decumani, sicuri del favore di lui, introdussero per parte loro altra gravezza, tre cinquantesime del frumento, che l’agricoltore dovea pagare; ed una contribuzione in danaro, che spesso superava il valore del frumento. Nell’isola di Lipara la decima fu un anno stabilita in secento medimni di frumento; e trentamila sesterzî ebbero quegli agricoltori a pagare, per ragion di lucro, al pubblicano. Furono visti in Sicilia cittadini anche romani appesi agli alberi e lasciativi a spensolare, finchè non aderirono al pagamento. Ne furono visti pubblicamente scudisciati. Ne furono visti anche più crudelmente tormentati.
Di tutto il frumento così iniquamente raccolto, ne mandava in Roma una parte, come prodotto dall’ordinario tributo della decima e come comprato. Un’altra, forse la maggiore, unitamente ai nove milioni di sesterzî, che da Roma si mandavano, andava in suo profitto. Tante vessazioni fecero venir meno l’agricoltura a segno che dai pubblici registri d’ogni città fu provato, che in Leonzio il primo anno della pretura di costui, gli agricoltori erano ottantatre, il terzo trentadue; in Mutica di centoventotto si ridussero a centouno; in Erbita di dugentocinquantasette a centoventi; in Agira di dugentocinquanta ad ottanta, e colla stessa proporzione in tutte le altre città; perchè da per tutto restarono a coltivar le terre, ma con poco capitale e pochissimo bestiame, solo coloro che avevano fondi proprî e temevano, che fuggendo, non fossero preda di Verre.
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