Detto fatto, ebbe a se Diodoro; e chiese quelle coppe. Colui che non voleva perderle, rispose non averle in Sicilia, averle lasciate in Melita ad un suo congiunto. Verre manda tosto ordine di ricercare di quella persona, trarne le tazze e mandargliele. Ma Diodoro lo prevenne; scrisse a quel congiunto di rispondere, aver mandate le tazze a lui in Lilibeo. Egli intanto si assentò di Sicilia e venne a Roma. Come seppe Verre essergli fuggiti dalle mani Diodoro e le tazze, fu per venire pazzo. Volle far proporre contro quel misero un’accusa capitale, per condannarlo, tutto assente che era. Diodoro reclamava in Roma. Il padre, gli amici del pretore a lui ne scrissero, avvertendolo del pericolo di quel passo. Era il primo anno della pretura; non aveva ancora raccolte tanto da comprare l’impunità; il timore lo tenne. Ma Diodoro ebbe a star lontano di Sicilia, finchè Verre vi dimorò.
Il solo mezzo di conservare qualche cosa era quello di ricattarla, con unger le mani dei due Babuzzesi; chè, dice con somma grazia Cicerone, in tutti que’ furti, Verre adoprava solo le mani; gli occhi erano di costoro. Così avvenne a Pamfilo da Lilibeo, dal quale, dopo avergli tolto una grande urna d’argento, lavorata da Boezio, si volevano due bellissime tazze dello stesso metallo. Le salvò con dare cento sesterzî ai due fratelli.
L’impudenza di costui giunse a tanto, che talvolta, senza darsi la pena di frugare per le case, ordinava che tutta l’argenteria e ’l vasellame di una città fosse a lui recato, per iscegliere ciò che gli fosse a grado.
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