Così fece in Catana, in Centuripe, in Alonzio, in Agira. Usavasi allora incastonare ne’ vasi, nelle profumiere e tutt’altre cose d’argento od oro, piccole immagini ed altri lavori di musaico, di cesello, di bassorilievo, che gli antichi chiamavano emblemi, i quali erano assai più pregevoli del metallo, di che il vaso era fatto. Verre da tutte le cose solea svellere gli emblemi, e restituiva l’argento monco e deforme. E tal copia ne raccolse, che tutti gli orafi di Siracusa, e molti altri altronde chiamati, stettero otto mesi nel suo palazzo a lavorare vasellame d’oro, in cui incastonavano quegli emblemi con tal maestria che parevano nati fatti per ciò.
Nè le più piccole cose scappavano alla cupidigia di costui. Gli cadde una volta sott’occhio una lettera scritta da un L. Titto, cavaliere romano, che in Agrigento dimorava; gli piacque il suggello; scrisse in Agrigento, e colui ebbe tolto l’anello dal dito.
Antigono re di Siria; reduce da Roma, venne in Siracusa. Verre previde d’avere alcuna preda da fare; però mostrossi verso lui assai cortese; gli regalò oglio, vino, frumento; lo invitò a cena, e nella cena fece pompa del suo vasellame di argento (quello d’oro non era ancora fatto). Anche il re invitò a cena il pretore, e con regia magnificenza fece trovare sulla mensa grandissima copia di vasi d’oro d’ogni grandezza e di ottimo lavoro. Era fra le altre cose ammirevole una gran tazza da vino, fatta d’una sola gemma incavata, col manubrio d’oro. Verre tutto ammirava, tutto lodava, e ’l re ne gongolava.
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