Maravigliato il re della sfrontata pretensione, rispose: non potere donare ad altri cosa da lui già consacrata al sommo Giove. Dalle preghiere passò alle minacce, e tornate vane anche queste, ordinò al re di sgombrare prima di notte, dicendo: aver saputo che pirati del suo regno erano per venire in Sicilia.
Quel misero re, solo, in terra straniera, divenuta quando meno sel pensava nemica, esposto a qualunque violenza di quel tristo, ebbe a partire. Ma prima di partire venne nel foro, mentre era folto di gente. Ivi, piangendo a calde lacrime, chiamò ad alta voce in testimonî il popolo siracusano, quanti cittadini romani ivi erano, e gli Dei, del furto e del tradimento fattogli; dichiarò sè non curare del vasellame d’oro e delle altre cose sue; ma non potere in conto alcuno tacere del furto del candelabro, da lui già dedicato a Giove.
Pareva che Verre avesse dichiarata guerra, non che agli uomini, ma agli Dei (96). Era in Segesta una statua di Diana di bronzo, celebre per la sua bellezza, portata via dai Cartaginesi, e poi restituita da Scipione. Era di grandezza più che naturale; le pendeva la faretra dagli omeri; l’arco aveva nella destra; una face nella sinistra. Nella base era scritto il nome di P. Scipione. Verre, come la vide, ordinò ai magistrati d’atterrarla e dargliela. Si negarono. Tanto bastò perchè la città fosse esposta alle più crudeli vessazioni. Era tassata più di quello che le sue forze comportavano, nella contribuzione del frumento comandato, della galea, dei marinai; ed apertamente era minacciata della ultima sua distruzione.
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