Al tempo stesso il popolo di Palermo, levatosi a tumulto, cominciò a gridare contro la ingiustizia del grand’ammiraglio, che teneva in carcere il conte di Policastro, il cui senno, il cui valore avrebbero recato a lieto fine l’impresa, a cui sarebbe appartenuto il comando di quelle armi, se non gli fosse stata senza ragione tolta la carica di gran contestabile. Fu forza contentarlo; e tale era il rispetto, che generalmente si portava a quel signore, che la sola sua presenza valse quetare il tumulto.
Sedato quel subuglio, il re venne a cingere di assedio Butera; ma per la fortezza del sito, il numero e il coraggio dei difensori, vi perdè gran tempo invano; e già disperava di potere l’impresa riuscire a buon fine, quando, postosi per lo mezzo il conte di Policastro, fece piegare gli assediati baroni a venire all’accordo. E perchè in quella età i re non giuravano mai l’adempimento dei patti; ma i più insigni personaggi della corte giuravano per l’anima del re, il grand’ammiraglio, l’arcivescovo di Palermo e quei conti, che militavano nell’esercito regio, giuravano in quel modo di non impedire o recare altre molestie a quei signori, che aveano prese le armi, se andavan fuori del regno. Pure, come il re passò in Messina, per recarsi alla guerra d’oltremare, trovatovi il conte di Montescaglioso, ch’era per partire, il grand’ammiraglio, ad onta del giuramento, lo fece intraprendere e carcerare, per serbarlo alla sua vendetta.
Nè meno atroce fu la maniera, con cui in quello stesso tempo fu trattato il cancelliere Ascontino.
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