VI. - Nulla avendo più a temere, cominciò il grande ammiraglio a dar libero corso alle sue vendette ed alle ambiziose mire sue. Il conte di Montescaglioso, cui, con solenne spergiuro, era stato difeso il passaggio oltremare, tosto dopo il ritorno del re fu accecato; lo stesso destino si preparava al buon conte di Policastro, cui s’era mandato ordine di venire in Palermo; ma la morte, che lo colse in via, lo sottrasse a maggiori calamità. Guglielmo conte d’Alesa, Boemondo conte di Tarso, Roberto di Buovo, valoroso cavaliere zio del conte di Squillace, e migliaja di alti nobili personaggi erano, non che affastellati nelle carceri di Palermo, ma quali accecati, quali crudelmente scudisciati, quali gettati in oscuri e sozzissimi sotterranei. Nè andavano illese le mogli e le figliuole loro. Vedovi matrone e vergini di chiarissimo sangue strappare da’ loro palagi, altre venir chiuse in carcere co’ più vili malfattori; altre servire a forza ai sozzi piaceri del grand’ammiraglio; ed altre ridotte a far turpe copia di sè per vivere. Gli stessi principi Tancredi e Guglielmo, figliuoli naturali di Rugiero duca di Puglia, fratello primogenito del re, erano strettamente custoditi nel real palazzo.
Pure tutto ciò non saziava ancora la rabbia del grand’ammiraglio. Restava a trar vendetta del conte di Squillace, da lui innanzi ad ogni altro odiato, per avere quel vittorioso, signore, come giurato avea, esattamente riferito al re le parole dettegli dai baroni in Butera. Ciò non pertanto tale era la rettitudine di lui, che Majone non avea mai potuto trovare da apporgli alcun che, per denigrare le sue azioni agli occhi del re.
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