VIII. - Ma, mentre tutto pareva piegarsi a favorire le ree macchinazioni del grand’ammiraglio, un’incendio divampò, quando meno se l’aspettava, da un estremo all’altro del regno. Il popolo di Melfi fu il primo a dichiarare di non volere indi in poi dare esecuzione a verun ordine di lui, nè ricevere in città alcun di coloro, che egli avea lasciato a governar la Puglia. Fu questa come una scintilla caduta sopra un barile di polvere. In un attimo tutti i conti ed altri maggiorenti di quelle contrade si levarono in armi e si obbligarono l’un l’altro con giuramento a procurare per qualunque via di mettere a morte il grand’ammiraglio e non obbedire a verun ordine del governo, finch’egli non fosse morto o fuggito in altro regno. Gionata conte di Conza, Giliberto conte di Gravina, consanguineo della regina, Boemondo conte di Monopoli, Rugiero conte d’Acerra, Filippo conte di Sangro, Rugiero conte di Tricarico, Riccardo conte d’Aquila con altri baroni, si diedero a percorrere la provincia, per indurre a forza gli abitanti a prestare lo stesso giuramento; ma non accadde nè pregare nè minacciare: i popoli traevano in folla ad incontrare ed ingrossar la masnada.
Spaventato il grand’ammiraglio dalla subita ed universale insurrezione di Puglia e di Terra-di-lavoro, fece scrivere al re lettere alle città d’Amalfi, Sorrento, Napoli, Taranto, Otranto e Barletta animandole a tenersi fedeli; ma tali lettere in nissun luogo furono, non che lette, ricevute. Scrisse egli stesso all’ammiraglio Stefano suo fratello di accrescere l’esercito mercenario con promettere larghi stipendii a’ soldati.
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