Infelloniti a tal risposta quei baroni si diedero a rampognare il Bonello, al cui temporeggiarsi accagionavano l’essere ita a male l’impresa; e sì lo adizzarono, che mosse per Palermo colla sua truppa. Somma era allora la costernazione in Palermo; il re avea mandato ordine allo stratigoto di Messina di mandargli tantosto tutte le galee, che colà erano, con quanti soldati vi capivano: ma tal soccorso non era giunto ancora; nissuno correva alle armi per difendere la città e il re; gli amici di Bonello, ch’erano forse i più, pensavano più presto d’unirsi a lui; i suoi nemici, per tema della sua vendetta, cercavano di fuggire o nascondersi; per le campagne sparse di gente armata, non avean potuto raccorsi viveri a sufficienza per tenere un assedio; però all’avviso della mossa di Bonello, nissuno dubitava che, senza resistenza, si sarebbe fatto padrone della città, del re, del regno; ma costui forse spaventato dalla grandezza dell’impresa, come fu presso Palermo voltò la briglia e tornossi in Caccamo.
Giungevano intanto da Messina e da altre parti armi e soldati in ajuto del re; però non furono più in caso i congiurati di ritentar l’impresa; e di leggieri cessero alle persuasioni di Roberto di Sangiovanni canonico di Palermo, uomo chiaro per sangue e per inalterabile virtù, spedito loro dal re, di venire a patti; e i patti furono, che tutti coloro, che erano iti a ricoverarsi in Caccamo, uscissero dal regno, obbligandosi il re a dar loro i legni necessarii. Fu solo perdonato al conte d’Avellino, per la giovanile età sua e per le preghiere della contessa Adelicia, cugina del re ed ava del conte, la quale, non avendo altro erede del suo nobilissimo casato, teneramente lo amava.
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