Restandovi per lo più perdenti gli accusati, li faceva immantinente impiccare; ma, se alcuno degli accusanti soccombea, ne lo faceva andare immune. Quando poi l’orrore di tali scene fece venir meno i campioni, condannava gli accusati, ammettendo la testimonianza, non che di qualunque persona rigattata, ma delle stesse cantoniere e de’ servi.
In questo, il re fu di ritorno in Palermo; ma non però ebbero fine le oppressioni de’ Siciliani. Guglielmo, tornato alla naturale negghienza, si chiuse nel suo palazzo, senza darsi più alcun pensiere de’ pubblici affari. Era allora venuto a morte il conte di Marsico; però erano restati arbitri del regno il gran protonotajo e Palmeri, i quali erano tra essi occulti nemici, come già Majone e l’arcivescovo di Palermo; se non che, questi due lo erano divenuti dopo di essersi giurata fratellanza, per ajutarsi scambievolmente, ovechè quelli non avean mai pattuito alleanza; ma operava ognuno per sè; ed ognuno forse cercava il modo di smaltire l’altro. A costoro fu aggiunto il gaito Pietro eunuco, al quale, dopo la morte dell’altro eunuco Gioario, era stata conferita la carica di gran camerario. Era costui quel desso, che comandava l’armata siciliana, che dovea soccorrere Mahadia e vilmente fuggì; ciò malgrado era avanti mansueto che no, inchinevole più al bene che al male, più al dare che al ricevere; se non che non sapea vincere l’odio verso i cristiani, che teneva dal sangue e dal consorzio degli altri eunuchi, gente vile ed avara, che formava allora una fazione numerosa e potente.
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