Venuto il cardinale in corte; presente il re, la regina e gli altri cortigiani, lesse il breve pontificio e poi soggiunse, che avendo egli avuto conferita dal pontefice piena facoltà di aggiungere a quell’ordine quanto fosse del caso, per la sua pronta esecuzione, fissava un termine brevissimo, entro il quale i vescovi dovran partire. Rispose a ciò Palmeri: sè essere pronto ad eseguire ciò che il pontefice ordinava; ma non potere; nè volere sottomettersi al termine stabilito da chi non avea dritto di farlo; essere ciò una manifesta violazione delle leggi del regno, per non potere i pontefici delegare in Sicilia ad altri l’autorità loro, senza il consenso del re, che n’è il legato nato. La disputa, che indi nacque, andò tanto in lungo, che fattosi già notte, l’affare fu rimesso ad altro giorno.
Era allora nella corte di Palermo un giullare, al quale, purchè facesse ridere, era permesso l’oltraggiare chi che si fosse; vergognoso costume che si conservò in tutte le corti di Europa sino al XVII secolo. Un di que’ giorni quel buffone dimandò al cardinal Giovanni quanto Roma fosse di lungi da Palermo; quello rispose, esservi quindici giorni di viaggio «Gnaffè!» disse il buffone «io, vedendoti fare tanto spesso un tal viaggio, avea sinora creduto non distare oltre alle venti miglia. Ora conosco quanta sia la tua ingordigia di danaro; che ti fa spesso imprendere un tal viaggio. Affè che, se fosse in vita il vecchio Guglielmo, non andresti tanto spesso in Roma, carico di tesori di Sicilia, nè qui verresti a seminare scandali.
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