Que’ meschini tornarono a ricorrere al gran cancelliere, il quale carcerò quel tracotato notajo: ma ivi a pochi giorni, intercedendo il gran protonotajo e gli altri cortigiani, lo rimandò libero, e si contentò solo di spogliarlo della carica. Ciò, che oggi sarebbe riprovevole per soverchia condiscendenza, lo fu allora per soverchio rigore: alte querele se ne fecero in corte; e Riccardo Palmeri ebbe cuore di dire in faccia al gran cancelliere, che, se si usava in Francia, non si usava in Sicilia di carcerare i notai della corte, come i più vili plebei.
Non per questo il gran cancelliere cambiò condotta. Per frenare la rapacità de’ notai fissò i dritti che loro potevano spettare; con sommo rigore sorvegliava la condotta degli stratigoti e di tutti i magistrati delle città e delle provincie, per tor loro il mal vezzo di opprimere il popolo: e ben ne venne a capo; sì che da tutte le parti del regno le genti venivano in Palermo a reclamare pe’ torti prima sofferti; e tanta era la calca, che alla pronta spedizione delle sentenze nè i giudici erano sufficienti, nè i notai, comechè se ne fosse in quell’occasione accresciuto il numero. Lodava il popolo a cielo la giustizia severa del gran cancelliere; uom diceva, esser egli un angelo liberatore mandato da Dio a riformare il governo.
I Palermitani, fatto cuore da ciò, si unirono ad accusare il famoso Roberto da Calatabiano. Gli apponevano d’essere apostata, e in prova ne adducevano l’aver egli riedificata a sue spese una moschea de’ Saracini entro il castello-a-mare di Palermo; lo accagionavano delle case e dei poderi estorti, de’ cittadini carcerati, cruciati e fin fatti morire nelle carceri, delle donne violate e delle vergini stuprate con violenza; e di avere appigionata ad alcuni bettolieri una sua casa, la quale, essendo egli a parte de’ turpissimi profitti, era destinata ad ogni maniera di brutture le più nefande.
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