Egli adunati tutti i crocesegnati che colà erano ad aspettarlo, con lunga orazione mostrò la sua innocenza e l’ingiustizia della scomunica, e perchè il divieto del papa di prestare a lui obbedienza non nocesse alla riuscita dell’impresa, propose che gli ordini non in suo nome, ma di Dio e della cristianità fossero emanati. Conchiuso poi il trattato, venne a Gerusalemme, entrò nella chiesa del santo sepolcro, adorò il monimento; ma l’arcivescovo di Cesarea, d’ordine del patriarca di Gerusalemme, ch’era legato del papa, per impedire ch’egli vi fosse coronato, avea posto l’interdetto a quella chiesa; per che nessuno dei vescovi v’intervenne. Federigo tolse le difficoltà con levare egli stesso la corona dell’altare e porsela in capo colle sue mani. Comedia chiama questa il Di Blasi; non pensa il buon monaco, che Federigo volle in quell’atto far conoscere; che un re non ha mestieri, che altri gli mettesse lo corona sul capo, per esercitare la sua autorità, e che il suo stesso braccio, che lo coronava, sapea ben difendere la sua corona.
Nè quì ebbero fine le lagne date a quel principe dagli emissarî di Roma. I frati francescani predicavano come precetto di cristiana obbedienza il levarsi in capo contro un principe scomunicato, che il pontefice avea dichiarato decaduto dal trono. Federigo ne fece balzare alcuni dal pergamo alla prigione; più di uno ne fece scudisciare; gli altri ammutirono. Pure (tanto lo studio di parte avea allora pervertite le idee) papa Gregorio e il patriarca di Gerusalemme, nei loro manifesti sparsi allora in Europa, alto gridavano per tale punizione ch’ei chiamavano sacrilegio (331); come se il pergamo fosse fatto per predicare la rivolta, ed ogni sovrano non fosse in dritto d’infligere a’ sediziosi, quale che fosse l’abito che indossano, gastighi in tanto più severi e clamorosi, in quanto è più grave l’abuso del sacro loro ministero.
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